Cinquant'anni fa. Esatti. Vajont, la tragedia più evitabile della nostra storia (dalla fine della guerra almeno). Eppure il nostro è un paese fin troppo abituato alle tragedie cosiddette "evitabili". Ho nella mente L'Aquila, la Costa Concordia, l'ultima strage di migranti al largo di Lampedusa. Tutte vittime in qualche modo evitabili, ferite dolorose nella nostra memoria. Il Vajont, tuttavia, è il paradigma di tale fenomeno, lo specchio, il fantasma ricorrente, delle nostre mancanze.
Quella sera di mezzo secolo fa si giocava la finale di Coppa dei Campioni. Real madrid contro Glasgow Rangers. Nei paesini della valle del fiume Vajont quei fortunati che avevano il televisione in casa si erano radunati per guardare la partita, gli altri trascorrevano tra le mura domestiche una fresca serata autunnale.
Accadde alle 22:45, i residenti lo temevano da anni purtroppo. La montagna crollò verticalmente sulla diga costruita vicino ai centri abitati di Longarone, Erto e Casso. La massa di detriti cadde nel lago artificiale, fece innalzare una parete di fango e massi alta circa 200 metri.
Le piccole comunità del Vajont vengono spazzate via da un turbine d'acqua e fango. Un fiume inarrestabile destinato a lasciarsi dietro solo devastazione e morte: le vittime contate furono duemila.
L'intervento pronto di volontari, militari e semplici cittadini scattò immediatamente. si precipitarono nel Vajont da ogni parte d’Italia per aiutare la popolazione superstite nelle ricerche e nella ricostruzione. L'ennesima bella pagina scritta dal cuore della gente e dall'umanità che sempre ha contraddistinto questa nazione. Umanità e cuore contro il disinteresse e la lentezza delle istituzioni, come sempre accade.
La pericolosità della diga non era nota solo agli abitanti della valle ma anche alle istituzioni. Fin dagli anni '40, infatti, si erano prodotti rapporti che informavano sui continui smottamenti cui l’area naturale circostante la diga era sottoposta. Tant'è vero che negli anni precedenti il disastro si realizzarono interventi conservativi, al fine di limitare le frane in direzione della diga sollecitata dalla continua minaccia di frane.
Tuttavia si decise di mantenere in funzione la diga. Minimizzare i molteplici segnali di pericolo e continuare a puntellare la montagna. L'area subì continui ritocchi, fino agli ultimi mesi prima della sciagura. Tale atteggiamento evidenziò ancor più la colpevole superficialità delle istituzioni. Le infrastrutture sembravano avere la priorità sui rischi e sui pericoli a cui si esponeva la popolazione. Ragion di Stato contro la scienza, politica contro gli avvertimenti dei cittadini. La gravità della disgrazia fece emergere tutto questo. Il silenzio, le inadempienze, le prove nascoste durante la costruzione della diga, tutto salì a galla insieme alla terribile ondata.
All'epoca, prima del disastro, una sola voce indipendente si era levata contro la diga. Un unica voce che tentò di infrangere il muro di silenzio: Tina Merlin, giornalista dell'Unità. Solo lei denunciò i pericoli a cui erano esposti gli abitanti dando voce alla gente della valle. Rimase inascoltata. Peggio, venne denunciata per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico". Subì un processo e, ovviamente, fu anche assolta. Dopo la tragedia (che si può definire strage), scrisse un libro: Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Ci credereste? Il libro riuscì a trovare un editore soltanto nel 1983.
Nel 1968, quando io nascevo, iniziò il processo ai responsabili. Imputati i tecnici e dirigenti coinvolti nella realizzazione dell’opera. Saranno condannati a 21 anni di prigione: omicidio plurimo aggravato e disastro colposo. Tra i colpevoli il direttore dell’Ufficio Lavori del cantiere, l’ingegnere capo del Genio Civile di Belluno, anche direttore dell’Istituto di Idraulica della facoltà di Ingegneria dell’Università di Padova, i componenti la Commissione di collaudo della diga. Nei successivi gradi, in ossequio ad una tradizione ormai quasi consolidata, alcuni imputati riuscirono a scamparla per insufficienza di prove, altre pene vennero ridimensionate.
Questo è quanto dovevo alla memoria. Coltiviamo la memoria, non facciamola mai appassire se vogliamo rimanere vivi.
Questo è quanto dovevo alla memoria. Coltiviamo la memoria, non facciamola mai appassire se vogliamo rimanere vivi.
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